un racconto di Guido Casamichiela
vincitore del concorso letterario e visionario “Ma quanto parlo?“
per Di Rabarbaro in Frasca
La dottoressa dal nome basco ha stretto gli occhi come fa chi sorride, ma chissà. Portava la mascherina chirurgica, e sopra la chirurgica una FFP3: la bocca era doppiamente invisibile. Le avevo appena chiesto se era vera quella storia che il virus a 27 gradi muore. Se ne parlava i primi tempi, quando la pandemia era solo epidemia. Poi non se n’è più parlato, e questo non parlarne era già una risposta. “No. Ora sappiamo che ci vogliono 55 gradi.”
Quando la dottoressa dal nome basco ha detto così mi è venuto in mente il mio primo Guinness dei primati, in particolare la sezione dedicata ai record climatici. La temperatura più alta registrata sulla Terra è di 51 gradi: deserto libico: inizio settembre, forse il 2: l’anno non lo so.
Guinness dei primati 1985, aveva una copertina azzurra tendente al turchino.
Quante possibilità ci sono che su tutto il mondo stazioni un superanticiclone che alzi la temperatura di 4 gradi rispetto al record mondiale di caldo?
“Dovremmo fare tutti una sauna.” Ha aggiunto la dottoressa dal nome basco, e nella voce c’era mezza risata.
Lì, seduto accanto a un muro dell’area rossa del Maggiore, faticavo a ragionare sulla sauna. Al limite il bagno turco, ma proprio al limite. O piuttosto la lavastoviglie.
E’ il mio elettrodomestico preferito. Lo era già prima. Ora di più.
La sera dopo cena mi chiudo in cucina. Camilla e le bimbe sul divano della sala, io penso a riempirla. Prima i piatti, sempre prima i piatti. Codice rosso. Poi le posate. Codice giallo. Lo stesso numero di posate nei quattro settori del cestello portaposate. Se le posate sporche non sono multiple di quattro mi viene sempre un po’ di malessere. Dopo, pentole e padelle. Con precedenza alle padelle. Codice verde. Le pentole a volte sono quasi pulite, la lavastoviglie in quei casi è uno spreco: le lavo a mano che faccio prima. I bicchieri per ultimi. Non sono neppure codice bianco, sono codice trasparente. Il resto, tupperware, teglie, scodelle, minipimer non sono frequenti, hanno codici variabili a seconda del grado di unto.
La nostra lavastoviglie ha il risciacquo, il lavaggio a 40 gradi, il lavaggio a 50 gradi, il lavaggio a 65 gradi e il lavaggio a 70 gradi.
Un tempo facevo sempre il lavaggio a 50 gradi. Poi è venuto un tecnico, un giorno che si era intasato il lavello. Mi ha detto di fare solo lavaggi a 65 gradi, che durano meno e alla fine si risparmia. Mai fare lavaggi a 70 gradi, su questo era perentorio. Io ho detto sì, certo, mai lavaggi a 70 gradi e ho accettato la cosa senza discutere: come quando da piccolo ti dicono di non ingoiare la gommina.
Quando finisco di caricarla do un’ultima occhiata dentro per essere sicuro che tutto sia sistemato come si deve, e che i piatti non sporgano quel tanto che basta da ostacolare il giro del braccio rotante: quella è la mia preoccupazione maggiore. Poi metto il detersivo nell’apposito scomparto, schiaccio il pulsante dei 65 gradi, chiudo lo sportello e sento che la lavastoviglie parte. A quel punto sono contento, le cose sono andate come dovevano, posso anche rilassarmi. Vado sul divano anch’io.
Se fossimo tutti posate basterebbe un lavaggio a 65 gradi, che come mi ha detto il tecnico fa risparmiare più di quello a 50. Forse si potrebbe addirittura pensare di rompere il tabù del lavaggio a 70 gradi. Ma non
necessariamente.
Io, Camilla, Agata e Nora siamo anche 4. Che è il primo multiplo di 4. Potremmo stare ognuno in un diverso settore del cestello portaposate. Comodi, larghi, ben bilanciati.
E invece no che non siamo posate, e il deserto della Libia è così lontano.
Maggio 2020, scritture da pandemia