#2 Zamoc feat. Degustibus


 

A scuola hanno disegnato un frigiolidio metodico

Tante spille da balia, di fianco a pistoni su di un rastrello che sgambetta in modo corinzio. Si dice così, si dice corinzio?
Non ha occhi ma passa inosservato al centro del disco, scivola dietro.
Allora poi, questo rastrello che prima mi sembrava un rastrello, oggi decido che è un animale. Un animale con tante zampe, tutte. Tutte le zampe che si può. Anche quelle degli altri.
Mi piacerebbe sapere se può anche guardare, oltre che camminare. Io credo che possa, ma credo anche che guardi solo dritto. E ho la sensazione che non riesca a girare: fa ampi e lunghi passi solamente in avanti.
Delle marce, si. Delle lunghissime marce immobili.
Fortuna che oggi ho studiato anche i capitelli greci. E a musica, con il maestro di musica, abbiamo studiato il loop. Papà, papà, ma lo vedi che non si muove mica poi alla fine? Sembra che vada avanti, ma poi no, poi resta! E’ come un loop, che passa e torna, passa e torna, passa e torna. Si riconosce sempre, il loop. Papà, a te te lo hanno insegnato mai il loop?

 

 

“PIEDONE, detto anche Gambadilegno
prima di camminare ha imparato a marciare.
Un capociuccio per elmo
una lunga stanga
usata come micidiale spranga
Al passo dell’oca trasloca
se raggruppato in falange
ogni nemico infrange.”

G.S.

 

degustibus-zomac

 

grafica di Luca Zamoc, illustrazione Giorgio Spiller
label Degustibus music

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una conversazione con Luca Zamoc

 

Partiamo dalle tue immagini:  sono avvolgenti, nel vero senso del termine: pochi sono i tratti svincolati da altri oggetti, da carni, da movimenti: cosa c’è dietro l’intenzione delle loro azioni e da quello che stringono?

Fin da piccolo avevo la passione dei nodi. Li disegnavo continuamente e non ho smesso di farlo. Non ho la più pallida idea del perché io lo faccia, né da da dove arrivi questa voglia. Mi piace pensare che forse un giorno lo scoprirò e mi piace ancora di più sapere che non mi interessa capirlo ora. Abbiamo sempre di più l’attitudine alla ricerca, a voler trovare un significato per tutto. Però per questa volta qua, che è la mia volta più antica di tutte, non ho voglia proprio di toccarla. E’ bello lasciarla lì. Pura.

Passi dalla grafica all’illustrazione digitale, al 2D. Però il tuo stile rimane lo stesso. Sono stati d’animo quelli che ti spingono ad esprimerti con un mezzo piuttosto che un altro, o commissioni?

Nella mia carriera ho sempre cercato di sfruttare le commissioni, che oltre ad essere una spinta economica, sono anche una spinta tematica, da cui poter sperimentare il più possibile. Quando per esempio mi propongono di fare un nuovo lavoro e mi dicono che lo vorrebbero simile ad uno che hanno visto e che gli è piaciuto, io rispondo che no, che quel nuovo lavoro deve essere fatto in un altro modo ancora. E lo faccio in quell’altro modo lì. Passo quindi ore in biblioteca, a conoscere, a capire come affrontare la mia nuova commissione. Questo mi permette di andare avanti e di provare diverse tecniche.
La grande svolta del mio percorso poi è stata il muralismo: ha aperto ancora di più i confini della mia creatività. Il muralismo é qualcosa di grande, di fisico. Completamente un altro approccio.

Blu e la mostra sulla Street Art a Palazzo Pepoli, Bologna: lo sapevi che saremmo andati a parlare di questo, dì la verità…

eh, beh… si…!

Una parte del comunicato stampa della mostra dice così: “(…) il progetto nasce dalla volontà di esperti nel campo della street art e del restauro, di avviare una riflessione sulle modalità della salvaguardia, conservazione e musealizzazione di queste esperienze urbane (…).” E qui ho due domande: è giusto parlare di conservazione di questo tipo di arte? e la seconda: già esistono gli esperti di street art? chi è l’esperto di street art, che caratteristiche ha?

Allora, riguardo alla prima domanda: è tutto molto controverso in questo discorso.
Il muro, per quanto rispettato e per quanto vecchio, non ha una durata eterna. Il fatto che il “prodotto murale” sia effimero è intrinseco nell’essere writer. Quindi, salvaguardare queste cose qui, è per noi un controsenso, non esiste. Non ci poniamo neanche il problema: il muro c’è adesso. E non importa per quanto tempo ci sarà ancora.
Gli esperti di street art? Questa figura è nata quando sono arrivati i soldi: prima l’arte di strada non se la filava nessuno, rasentava il vandalismo, quasi una branca! E poi, improvvisamente, dove al posto delle scritte sono nate le figure e si è persa la dimensione autoreferenziale, è diventata una roba pop, una cosa commerciale. E’ entrata a far parte di gallerie, dei musei…

Del sistema dell’arte contemporanea in poche parole…

Esatto. Il termine street art è un termine che ci ferisce ogni volta che lo utilizzano. E’ una parola estremamente connessa alla pop culture e ai soldi. E se anche la “street art” nasceva da una necessità pura e del tutto svincolata, l’hanno chiamata così, affibbiandole questo ruolo, all’interno del sistema dell’arte, come dicevi tu. L’effetto è un po’ lo stesso che si ha quando si pensa al termine “manierismo”. Parola che ha assunto un’accezione del tutto negativa se confrontata poi all’ideale rinascimentale. Ecco, questo “svilimento” è lo stesso stato d’animo che la “street art” vive ora.
In quanto agli esperti, ci si autoproclamano, ma non lo sono. Non possono. Perché gli esperti di street art sono quelli che l’hanno iniziata e fatta. Che l’hanno vissuta: Blu, Ericailcane. Hanno preso un’asse e i rulli al posto delle bombolette, in lungolinea di notte: pezzi giganteschi, di storia. Hanno scritto qualcosa che si studierà.

Sto pensando alla Land Art e alla grandezza in termini tecnici degli interventi di artisti come Robert Smithson o Christo e molti altri: pezzi giganteschi, come dici tu. Anche il loro bisogno nasceva da un intento effimero, che si è poi musealizzato con espedienti documentaristici, come il video, le foto. Pensi che la street art possa servirsi di questo o credi io sia già fuori moda quando ti parlo di fotografia e documentazione insieme?

Le foto e i video sono di moda quando devono raggiungere più persone possibili, quando vengono postati, ed esempio. In termini commerciali e di visibilità è più importante la foto del graffito, perché la foto rimane, il muro no. Lo scorso settembre ho fatto una mostra a Vienna sui social in cui parlavo dell’ubiquità dell’opera d’arte e c’è un capitolo di Notre Dame de Paris in cui Victor Hugo scrive che l’architettura è stato il primo alfabeto dell’uomo: mettere una pietra sull’altra era come mettere una parola dopo l’altra. Le cattedrali come i romanzi. E quando è arrivata la carta, il messaggio in questo caso religioso, veicolato prima nelle cattedrali, è diventato sempre più silente, perché ha cambiato mezzo. La pietra è più pesante di un foglio. Adesso il nostro media non è neanche più il foglio, ma il pixel!

Che singolarmente non lo si vede neanche

ma è ovunque. E ha colpito la nostra generazione. Io sono dell’86, non so te…

Ci salveremo?

Assolutamente no! Saremo sempre più astratti e meno fisici. E’ una grossa responsabilità la nostra, o quanto meno: io cerco di operare maggiormente nell’analogico, perché voglio salvaguardarlo.

Chi è Giorgio Spiller?

Ah! Il mio grandissimo mastrobottega!
Ho avuto la fortuna di poterlo scegliere come mentore grazie a uno dei miei più grandi amici che è suo figlio. C’è stato un momento nella mia vita in cui ho sentito il bisogno di fare un passo indietro. Di fermarmi un attimo. Sapevo che il padre di Spiller era un rinomatissimo professore all’Accademia di Belle Arti, uno dei più grandi mascherai veneziani. Ha riportato in auge la maschera verso la fine degli anni settanta, insieme con un suo socio e poi si è ritirato sulle montagne, nei boschi. Ora vive lì e io me ne sono innamorato. Gli ho chiesto di insegnarmi ad uscire dalla carta, ad uscire dalla bidimensionalità. Poi mi sono trasferito a casa sua! Ora sto imparando a lavorare la creta.

E la musica?

Il filo conduttore di tutto il mio lavoro sono le storie e la musica, tra tutte le arti, è quella che le racconta meglio: ho sempre disegnato sulle canzoni. Poi nel 2011 ho conosciuto Batongo.

Quindi eccoci qui. Grazie allora, è stato davvero un piacere.

Mio!