Sonnambuli diurni in mezzo alla strada, all’ora di punta, di mattina, alle quattordici e ventitré. Che poi l’ora di punta, in agosto, che ora è?
Si disarmano così i pensionati e quelli che hanno passato inverni alle macchinette. Le famiglie con il reddito in nero e un bambino piccolo, e i padri con troppi figli a carico. Tutti in mezzo alle strade delle città deserte apparentemente, che in agosto sfoggiano i loro outfit migliori: braghe a righe, bianche e blu. Canotte unte, macchie d’olio sulla pelle, capelli avvoltolati, come il fumo fitto di ciminiere per lei, pelastri secchi sul petto nudo per lui.
I migliori sono quelli con le ciabatte di gomma sbiadita e i calzini bianchi fini, che appaiono già i primi di maggio, ma in agosto, in agosto battono tutti. Poi ci sono i piedi scalzi: non solo per andare dal vicino a chiedere uno spicchio d’aglio, ma anche al supermercato, dall’unico giornalaio aperto, o al bar di quartiere che chiuderà per ferie domani. Quei piedi scalzi come se agosto non fosse sporco, come se le strade d’estate si sterilizzassero con il vapore dell’asfalto, come se il caldo asciugasse il sudore dello smog e zittisse la rabbia dei lavoratori medi.
Sergio è irritato e malinconico. Percorre con lo zaino la strada dalla stazione a casa, nelle sue scarpe da ginnastica. E’ appena tornato, mentre l’estate arriva. Ha giocato con il pallone in acqua, ha messo la maschera e ha imparato a respirare nel tubo. Ha battuto le pinne e usato le gambe, ha scoperto i cannolicchi, il sesso dei granchi, gli spicchi di luna alle otto di sera, sull’acqua. Ha sfiorato più volte la chela dei paguri, la più grande, quella che sbuca per prima, per più volte l’ha guardata risucchiarsi velocemente all’indietro. Quindi Sergio, ormai cittadino, vede che alle 17 di pomeriggio di un normale sabato di inizio agosto, le saracinesche di tutti i negozi sono chiuse, sono grigie, alcune hanno il cartello, quello dai colori fluo, quello con scritto chiuso dal al, oppure non hanno proprio niente. Poi prosegue, dietro l’angolo dalla via principale, dove le case si fanno villette, si intravedono i piccoli giardini, i cortili rettangolari, fazzoletti di patio in granito e briciole di asfalto. Poi erba quasi al verde d’acqua per i villeggianti, o subito bambini con schiamazzi fuori dal cancellino: triciclo, trenino e giochi d’acqua: cosa fa, a parte il rapido tremito, un poco d’acqua? Poi la vede, in un grigiume d’argento, sospesa, protesa verso l’incrocio che porta al Pam o prosegue dritto, fuori città; Carmela, la vecchia mendicante che balla.
Ebbene, Carmela Sergio la vede solo d’inverno, quando percorre quella strada dalla stazione a casa, dopo scuola. Carmela ha le sciarpe di lana addosso e una mano protesa a palmo in su. Generalmente ondeggia: un poco a destra un poco a sinistra e con il collo che segue la testa, asseconda un motivetto, ancheggiante e svampita. Sorride, la vecchia Carmela, con due soli denti e in terra il suo stereo, mendica e balla, si guadagna da vivere. Ma poi con il caldo Sergio non la vede più, è appena giugno che Carmela sparisce. Nessuno sa bene dove, neppure Sergio. Ma in agosto, quell’agosto lì, Sergio giura: è lei. La riconosce dal viso rosa e le guance paffute, dagli occhi sottili come lamelle, azzurri solo quando solleva le sopracciglia spoglie, per ringraziarti dell’offerta. La riconosce perché Carmela è calva, tranne che in fondo alla nuca: morbidi fin sopra le spalle, un mucchietto di peli biondi, chiarissimi, bianchi appena, panna si direbbe, stringono in una coda la loro minutezza. Infine Sergio la riconosce dalle scarpe: deliziose decolté scarlatte, tirate a lucido come dai veri lacchè che Sergio avrebbe voluto incontrare, e ora non più. Carmela tuttavia non sembra in forma, Sergio si ferma, per osservarla al meglio dalla sua distanza: che forse abbia bisogno di aiuto? Non vede lo stereo, non ci sono le sue sciarpe, le scarpe le ha tolte, la aspettano nude al suo fianco. Stringe al petto però un bouquet, di rose bianche e una luce chiara la illumina come neppure ad agosto quel sole. Carmela fissa il vuoto, dritto davanti a sé, così decisa, così concentrata, che il vuoto sembra ricambiare il suo sguardo. Sergio la scruta, poi scruta il vuoto e capisce che proprio vuoto non è. Il muro, dall’altro lato del suo viso, è vestito da pannelli di commiato, quelli che una volta per sempre ricordano chi è andato: Filiberto, Emanuele, Maria Concetta, Rachele. Poi Sergio legge Carmela, e la vede, Carmela, che fissa il suo nome di fianco alla rassegna. Legge nascita incerta – 8 agosto 2016. Carmela si fa avanti, attraversa la strada, sfiora il suo nome sul muro, appoggia le rose e fa un sospiro. Poi abbassa gli occhi fin sopra i suoi piedi, raccoglie le scarpe, le lascia lì. Sergio è stupito, vorrebbe farle le condoglianze senza sapere bene in memoria di chi, e sfidando il suo stupore si fa avanti, avanti fino a raggiungerle con la mano la spalla, che poi tocca: condoglianze, le dice. E Carmela sparisce.
Il muro è sporco: chi li pulisce i muri delle città? Agosto è un mese in ferie e i lavoratori li giustifica il sole: caldo e umido mentre il sudore piove come la pioggia d’estate. Allora Sergio non si fa troppe domande, rilegge il necrologio come neppure per suo nonno un anno fa e va dritto al cimitero, con lo zaino del viaggio, poca sabbia nelle tasche. Cerca Carmela perché a casa non ci vuole tornare, la cerca perché le deve portare le sue scarpe rosse: dove vanno i vagabondi senza scarpe?
Poi in lontananza una coda lunga come neppure il collo di Lock Ness ferma Sergio a cento metri: ingresso blindato, il cimitero recita un congedo di chiusura estiva: scusate, riaprirò presto, il treno partiva.