Ci mettiamo pochissimo


Durante il pranzo della domenica non avevo aperto bocca. Qualche sospetto a mia madre venne solo alla fine della giornata, cugini zii e nonni stavano con i cappotti sull’uscio per gli abbracci di rito mentre lei, immaginando il mio imbarazzo, mi interrogava con un: Hai perso l’appetito oggi? Le avevo sorriso appena chiudendomi in camera la porta alle spalle. Con le dita sporche di sangue premevo gli incisivi per cercare sollievo, attenuando ogni movimento imprevisto. Avevo creato con la lingua una diga, dove la saliva fuoriusciva dal labbro inferiore, quindi avevo aperto un poco la bocca per far defluire tutti i liquidi. Nel giro di pochi minuti le labbra superiori erano secche e qualche crosticina di sangue raffermo cominciava a sedimentarcisi sopra; la porta si apriva. Mia madre si era immaginata quello che vide, sono sempre stata una fifona. Mi afferrò per un braccio senza dire nulla e mi condusse da mio padre che dei due era il più distratto: Che è successo? Devo avere avuto una faccia ripugnante: la bocca l’avevo lasciata aperta e con la lingua ciondoloni. Le croste di sangue si erano solidificate come a formare un terzo piccolo labbro tumefatto e infine, orrore degli orrori, la gengiva superiore era umida di un rosso scuro, aveva macchiato anche i miei denti; respiravo con il naso e con la bocca insieme, affannosamente, come se stessi morendo da un momento all’altro. La devi smettere tutte le volte con questa storia, ora te lo toglie papà! Mia madre era impietosa.
Da grandi ci si dimentica di quanto male si è patito con la caduta dei denti da latte e nessuno può prepararti a un dolore simile, anche se nella tua bocca avviene una specie di danza iniziatica almeno sette giorni prima della perdita. Avevo tenuto d’occhio il canino destro da lunedì, ogni tanto lo toccavo con l’indice, poi toccavo l’incisivo già adulto per confrontarne la stabilità, non c’era stato dubbio. Saldo il secondo, molle il primo, il suo andirivieni sarebbe cresciuto fino all’inesorabile momento. Nel caso di quella domenica era bastata una crosta di pane che maldestramente avevo addentato in attesa delle fettuccine. La radice aveva ceduto per la maggior parte, trattenendo il tutto solo di pochi millimetri; da sola non avrei staccato nulla. Ricordavo la perdita del mio primo dente, mi prepararono all’avvenimento come fosse un gioco: con la scusa del
topolino mangiadenti ero stata attratta dal soldo in cambio del mio incisivo e avevo lasciato a mia madre il compito di estirparmelo. Il giorno dopo la vicina ci fermò per le scale, chiedendo se fosse tutto a posto, che aveva sentito un urlo tale da pensare di chiamare la polizia. Quella sera sotto il bicchiere al posto del mio dente sanguinolento avevo trovato cinque mila lire. Era una bella cifra per me, ma niente sarebbe mai più valso tutto quel dolore. Per il canino sinistro invece c’era stata mia cugina, con una dentatura nuova da almeno tre anni. Bandita mia madre, le avevo concesso di aiutarmi, fidandomi della sua esperienza; ricordo che svenni per la prima volta. Ma la peggiore perdita la devo a mio fratello, assassino di seconda mano. Si trattava dell’incisivo inferiore; i nostri genitori ci avevano lasciati soli per un cinema serale, eravamo insieme grandi abbastanza da badare a noi stessi. Mostrai a Matteo che mancava poco, muovendo in su e in giù il dentino senza vita. Repentino prese uno spago da pesca e lo legò al mio incisivo, quindi l’estremità opposta alla maniglia della porta. Non so perché mi fidai di lui, forse perché era più grande di me e soprattutto perché era mio fratello, non avrebbe potuto massacrarmi visto le stesse paure, la stessa camera da letto e lo stesso gatto condivisi. Con un colpo solo chiuse la porta a cui la mia fragile serenità era legata, svenni anche in quel caso. Più svenivo più il topolino era avido di denari per me: non doveva andargli giù la mia debolezza in fatto di denti. Ne passarono molte altre, immaginate quanti denti ha un bambino. Quando non svenivo scoppiavo in un pianto dirotto, perdevo sangue dalla bocca e mi macchiavo la maglietta o il vestito, mia madre non lo sopportava.
Per la perdita del mio ultimo dente da latte, quella domenica, avevo sperato di passare inosservata e riuscire a occuparmene da sola, ma ero stata scoperta. Mio padre tirò fuori le pinze dalla sua cassetta degli attrezzi, le passò velocemente sotto l’acqua quindi mi chiese di aprire la bocca. Sentivo lo sguardo di mia madre pesare sul mio dente e le risa soffocate di Matteo; Ci mettiamo pochissimo, mi promise papà, ma neppure in quel caso seppi fare diversamente dal solito. Sbattei le ginocchia sul parquet e questo non bastò a farmi rinvenire in tempo per la cena. Mi raccolse mio padre che mi riportò in camere e mi mise a letto. Il giorno dopo il topolino mi lasciò un salvadanaio lucido e scintillante, vuoto. L’estinzione dei denti da latte aveva imposto la mia crescita: una bambina grande senza più perdite da piangere, ma con un salvadanaio nuovo da riempire.