fin dove arrivano le caviglie delle donne alte?


Ce ne stavamo in piedi, barcollanti, davanti all’ingresso; se non mi ci avessero portato, non l’avrei mai immaginato che fosse proprio quello l’ingresso di un posto così. Era uno di quei club della Roma bene, con gli attici che si arrampicano su tappezzerie di lusso e si aprono su banconi in mogano laccato. Dove i calici per gli alcolici sono di cristallo e hanno le estremità in sottili rifiniture dorate.
Mi viene in mente il termine filo zecchino, che pure è un misto tra lo zecchino d’oro e il filo di nylon. Ve lo ricordate voi lo zecchino d’oro? Da piccolo ci andavo matto e facevo il tifo per i bambini con la voce stridula e intonata, promettenti tenori in fasce con una mano in tasca e l’altra ciondoloni, stretta in un pugno sudato e tondo.
Avevamo bevuto troppo. Io in ogni caso avevo esagerato. E mi ritrovavo così: con due uomini e due donne, di cui non ricordo né il nome né la professione e neppure in quel momento lì lo ricordavo. Però mi ricordo che poi abbiamo deciso di continuare a bere, volevamo anche ascoltare della musica. Così ci siamo infilati in quel posto dai calici in oro zecchino, dove potevi bere e ascoltare musica, si chiamava Gregory’s Jazz Club e abitava in cima a piazza di Trinità dei Monti, era lui il posto della Roma bene.
Restava aperto fino a sera tardi, e quella sera lì era tardi, tanto che la musica che volevamo ascoltare avevano già smesso di suonarla.
Non restava quindi che bere e lo ordinammo. Qualcuno ordinò per me.
Andiamo al piano di sopra? vi va?
I camerieri non ci invitarono a salire le scale, ricordo anzi che ci guardarono male.
Comunque: ci ritrovammo scomposti su divanetti in velluto rosso e poggiammo i nostri drink sopra minuscoli tavolini, alti fin dove arrivano le caviglie delle donne alte.
Il palco in fondo alla sala se ne stava muto, ci giudicava: questa platea del vizio, silenziosa, sciatta e ubriaca. Un contrabbasso si riposava sul muro in fondo, la sua custodia gli dormiva di fianco, poi un sassofono sulla sedia non era da meno e qualche asta, ancora in piedi, si stancava. Infine lui: un pianoforte a mezza coda tagliava il palco, lungo una diagonale invisibile, trionfava nella sua lucentezza nera.
Le due donne starnazzavano senza motivo finché una di loro esortò un uomo, uno dei due, a suonarle qualche strofa. Lui non poté tirarsi indietro, sembrava anzi che ci avesse già pensato prima di lei, così era già sul palco e aveva preso il posto del sassofono, pronto a sputarci dentro. Il secondo uomo invece non osava, per fortuna, svegliare il contrabbasso, ma aveva impugnato una delle aste e recuperato un microfono.
E tu? Indicandomi, una delle donne sembrava sfidarmi. Tu non fai nulla?
Certo che volevo fare. Avrei suonato, non aspettavo altro che suonare. Da quando ero bambino che non aspettavo altro. E proprio il pianoforte volevo suonare. E quello, il pianoforte, mi fissava; aveva cominciato a puntarmi da subito. Allora eccomi, sono tuo, gli dissi e mi sedetti su quel suo sgabello elegante e pretenzioso, ti suono, mormorai con l’adrenalina dell’alcool tra le mani.
Le mie dita cominciarono a muoversi disordinatamente e come un adulto incapace di disegnare, sembravano scarabocchiare i tasti, scivolando ignoranti prima su quelli bianchi, poi sui neri, poi due volte su un bianco e una mezza su un nero e così via, senza nessuna logica musicale.
La mia testa si muoveva ciondoloni in su e in giù, poi leggermente a destra, un po’ a sinistra, quasi a voler seguire un ritmo senza trovarlo: il resto della band cominciava a dare segni di impazienza. Le due ragazze non ci ascoltavano già più, erano scese, forse ad ordinare un altro drink, fino a quando uno dei camerieri mi salvò dall’impaccio e riscattò il pianoforte, strattonandomi via:
questo è per chi sa suonare, mi urlò carezzando lo sportello che si prestò quindi a chiudere, coprendo i tasti tramortiti.
Con le mani offese e rosse dalla vergogna, mi lasciai portare giù dal palco, al mio seguito il resto dei musicisti, patetici quanto me.
Pochi minuti dopo eravamo di nuovo sulla strada, di nuovo di fronte al Gregory’s oramai chiuso, con gli stomaci pieni e le risate nel petto. Che figura di merda, mi ricordai di aver pensato.
La verità è che io non ho mai suonato il pianoforte in vita mia. Mai. E mi ricordo che da piccolo guardavo quello di mio zio con grande rispetto e ammirazione, che poi lui, mio zio, non è mica diventato un pianista.
E sarà stato un vizio di famiglia perché poi io ci ho provato pure, si sa che i bambini un po’ li accontenti quando sono piccoli, ma poi qualche cosa è andato storto, forse non studiavo abbastanza, forse non capivo, comunque un giorno mi son trovato ad usare le dita per aiutare mio padre con i motori degli autocarri.
Così quella notte, chissà che mi credevo, speravo nella quantità di alcool bevuta, speravo che la musica si sarebbe impossessata delle mie dita per farci l’amore, con quel pianoforte talmente era bello.
Invece finimmo tutti a dormire dalla Vale, che c’è sempre una Vale in serate così, che si aggiunge all’ultimo quando è già tutto chiuso, quando si è già tutti bevuti, che non capisci neppure se la Vale è una figa o no.
Che poi io quella Vale lì, neppure la conoscevo.
E non credo di averla mai veramente conosciuta.