era lì che scriveva, al centro della piazza, con le chiappe della statua dal basso appena alzava la testa. era dannatamente lui, ed io ero dannatamente io, la ragazza che l’avrebbe interrotto, che avrebbe valicato le quinte tra un artista di strada e la strada. mi sarei intromessa nella sua scena senza confini, fatta solo di barriere immaginarie delimitate dagli occhi dei passanti fin quando si attardano ancora un po’ per vedere che succede dopo. quando poi, un dopo non c’è mai. c’è il momento. era vestito come un uomo fuori dal tempo: cappello a bombetta, tre margherite dai petali rosa nel taschino della camicia, bianca. pantaloni verde marcio e bretelle. un paio di bretelle grigio lucente a delimitare un corpo senza petto, per scendere su di uno stomaco forte e rotondo. scarpe marroni, eleganti e appartenute a qualche suo nonno di tanti anni fa e calzini tirati fin su, chiari, con dei piccolissimi punti viola. un sorriso stampato in viso, gli occhi che si accorciano e si stringono gioviali, la pelle bianca farsi rossa e le labbra, oh che labbra, allargarsi senza stringersi mai. pronte subito ad accogliere i mie occhi, ridenti come pure il suo volto biondo. oh. : si alza dalla sedia, posa il foglio, non fa cadere la macchina da scrivere che tiene in grembo e mi chiede come sto. è un americano di New Jersey, questo è il suo lavoro: scrivere poesie per strada, per i passanti, scrivere per chi ha voglia di comprarsi personalmente da leggere. vendere momenti a chi non sa di appartenerci. sto bene, gli dico, e sorrido più di prima. non è bello di quella bellezza classica, come potrebbe. è spontaneamente lui. poso la mia bicicletta dietro la sua sedia, gli dico che gli farò compagnia, mi chiede se voglio una poesia in cambio di una bevuta. accetto e la mia poesia si chiama Gertrude, come la sua macchina da scrivere. infila un foglio nuovo, l’inchiostro che pigia sulle righe è rosso, ma le righe non seguono le parole, le tagliano per verticale, come lame buone. dice che gli piace, il rosso, e che non gli piace il nero. mi siedo, gli do’ le spalle, ogni tanto mi giro, sono in scena. gli annuncio che sarò la sua musa, mi suggerisce che le muse carezzano le tigri, hanno un grappolo d’uva e sorseggiano del vino, di tanto in tanto. così io di tanto in tanto carezzo la mia tigre, che siede adagiata invisibile davanti alle mie gambe, ho le ginocchia incrociate e un vestito rosso. lunghissimo, come i miei capelli. qualcuno si attarda, pensa che prima o poi qualcosa accada, o ci spera. lo disturbo qualche volta, vivo nella bellezza della sorpresa, che succederà questa notte nessuno di noi già lo sa davvero, sappiamo che continueremo a sorriderci conservando il mistero delle nostre scelte, fino all’ultima. termina la mia poesia, si alza, faccio lo stesso, la prende, la leggo, non capisco tutto il suo inglese ma decido che mi piace, decido che è bellissima. lo è. un ragazzo con gli occhiali si avvicina alla sua sedia, vuole parlargli, è incuriosito. mi faccio da parte, non voglio essere anche ora così invadente. sento che si scambiano idee, opinioni, rapide, non ascolto. si danno la mano, si presentano i nomi, poi il ragazzo si allontana e saluta anche me, pensa che anche io vengo da New Jersey. forse in quel momento ci provengo davvero. mi chiede dove ho voglia di portarlo, c’è una libreria gli dico, che vende libri e anche da bere, vedrai che ti piace, gli dico in inglese, così lui prende per mano la sua sedia e Gertrude, io prendo la mia bicicletta, siamo pronti ad andare. lui ordina campari soda mentre io vorrei già qualcosa di forte o non vorrei niente, ma prendo del vino. parliamo della poesia, parliamo della generazione americana dalla beat, della vita. finiamo il nostro drink, ci accompagniamo altrove, dico che c’è una mia amica che fra poco da’ una festa, fa conoscere gente con altra gente e lui dice che è ok. ci salutiamo prima di rivederci, manca un’ora alla festa e quando siamo quasi in mezzo alla strada, poco prima di una curva per separarci, mi bacia. leggermente, piano da far silenzio anche nel silenzio. e morbido, mi chiede se è un problema che mi bacia. lo rifà. dico che no, che non lo so, che per ora non è un problema. ci vedremo alle otto, per la festa. lui arriverà senza sedia, senza macchina da scrivere, ma con una bicicletta. per il tempo di attesa alle otto, io fluttuo in camera, raccolgo le mie cose più femminili, pettino i miei capelli biondi e cambio il rosso con il blu. sorrido come si sorride senza motivo e mi trotterello pedalando, fino a dove, più tardi, ci sarà anche lui. ordino un bloody mary, alla festa della mia amica che fa conoscere gente, lui un martini, parliamo con gli altri, del più e del meno, senza mai perderci di vista. finiamo anche un secondo drink che lui ordina per entrambe. andiamo da un’altra parte? perché no. e la serata continua, senza neppure vedere che ore sono, ci fidiamo l’uno dell’altra, parliamo e di nuovo ci baciamo e parliamo e cantiamo, anche. suona la tromba, questo anche è il suo lavoro. scrive e suona, sono un artista, mi dice, e non c’è alcun vanto, né venalità nelle sue parole. le persone intorno a noi sembrano leggere, nessuno sembra ascoltarci veramente, nessuno sembra davvero esserci, veramente. mi chiede se può restare a dormire da me. gli dico che dormiremo soltanto, rido poi. lui ride, me lo promette, sleghiamo le bici e ripartiamo. lo faccio passare nei vicoli, lui mi segue da dietro, corriamo nella notte smaltendo un alcool che non ci ha saziati: siamo pieni di noi due. ma non ci basterà, gli dico che se sono aperti ancora, voglio portarlo ai giardini che di notte c’è da perdersi. e infatti il cancello non mi abbandona, sfrecciamo all’interno, curviamo, saliamo e scendiamo, mi chiede la mano, rallentiamo insieme accostandoci, gli tendo il braccio e lui mi porta con se. di nuovo perdo di vista che ore sono, non ci penserò fino all’ora di pranzo del giorno dopo, gli dico che siamo sulla strada di casa, annuisce, va bene così. siamo stanchi ma felici, siamo ancora svegli. arriviamo in camera e mi spoglia delicatamente, non smette di baciarmi, la candela che ho acceso ha una luce dolce. il mio letto sembra più comodo di quando ci dormo da sola, tutte le sere, e quella sera sembro essere dentro una storia di qualche film fa. lui, nella storia, già c’è dalla piazza, dalla notte prima della giornata in piazza, dalla tromba sul palco della sera prima della piazza. ci addormentiamo abbracciati, gli ho fatto infrangere la promessa. mi sveglia come cenerentola e biancaneve e la bella e la bestia alla fine dei loro film, prima dei titoli di coda e subito prima che l’inquadratura del fotogramma si chiuda in un cerchio. fuori è giorno, si vede entrare dalla finestra che non ho chiuso e ancora dormiamo, ancora un poco, decidiamo insieme, senza neppure finire di parlare. quando è l’ora di pranzo ancora non lo sappiamo, preparo il caffè, preparo l’acqua calda e tiro fuori dal frigo tutto quello che ho. mi racconta dell’America, marmellate per me, uova e formaggio per lui. della sorella, mi racconta della sorella che vive nel North Carolina in una comune di cento persone, che mangia quello che alleva, che accarezza i suoi animali al pari dei suoi figli. lui ha una Mercedes degli anni novanta, mi chiede se conosco cosa sia l’olio fritto vegetale. la alimenta nelle retrovie dei ristoranti che hanno tanti clienti. parliamo dei bohémien, di come ci piaccia essere così noi, noi due, noi e tutti gli altri scrittori, artisti della vita. d’un tratto si alza, imita i suoi connazionali, li imita beffeggiarsi, dice che nella sua città c’è un festival di chi urla più forte. dice anche che non ha un cellulare, che se proprio gli vogliono scrivere un messaggio, di chiamarlo al telefono, quello di casa, come quando era fisso, di chiamarlo al telefono fisso. rido. mi dice che sono bella, me lo ha ripetuto tutte le volte che pure non l’ho scritto. gli dico che mi piace, mi chiede come si dice in italiano che gli piaccio, gli rispondo in inglese che anche lui a me. lo accompagno alla porta, “ci vediamo signorina, devo andare in ufficio”, e guarda il polso battendo le dita sull’orologio che non ha. tiro giù la maniglia, si alza il cappello, quasi si inchina e io stringo gli occhi. gli spiego la strada prima di vederlo scendere le scale. annuisco con la testa, ora è di spalle. come se danzasse del jazz, scende i gradini e mi sembra di essere in una commedia musicale americana, dietro le quinte di un palco di Broadway. l’atrio si fa seppia, e la luce del giorno pure. anche la mia pelle lo diventa e chiudo gli occhi come chiudo la porta. al suo ricordo allontanarsi un profumo di pane caldo entra dalla finestra della cucina. dopo un attimo sono fuori, sulla via del fornaio, compro il pane e il fioraio mi regala un petalo di margherita. mi ricordo di averne visti tanti, ai piedi del mio letto. erano rosa, come quello che stringo ora piano, tra le dita.