Era una notte buia e tempestosa di fine maggio. Fuori, l’inverno; ringhiava sui vetri delle camere e sputacchiava chicchi freddi di acqua concentrata.
Pioveva molto. Pioveva moltissimo, come quando è maggio e non piove per giorni e poi piove. La temperatura era scesa vertiginosamente di quindici gradi durante la notte e tutti quelli che avevano fatto il cambio di stagione nell’armadio – ho incontrato gente che l’aveva praticamente fatto il giorno prima – all’indomani andavano in giro con strati su strati di magliette sgargianti dalle frivolezze estive, pur di non dover credere che bisognava tirar fuori nuovamente i maglioni; alla sera raffreddati marci.
Il cielo non solo piangeva, era proprio disperato. E con lui anche tutti noi cittadini: i termosifoni condominiali erano andati in letargo a marzo, preventivamente, come ogni anno e quelli autonomi, erano stati svegliati bruscamente dai più freddolosi e consumavano più dell’immaginabile: gli girava non poco dover mettersi a lavorare alle porte dell’estate. Solo che l’Estate sembrava aver fatto dietrofront: ciao amici quest’anno non me la sento, qualcuno aveva detto di averla sentita dire. Ma io mica ci credevo.
Vero è che me la stavano facendo pesare, questa cosa del caldo e del freddo. Ormai erano diventate giornate intere di diluvi universali instabili; pioveva un sacco o pioveva pochissimo. Pioveva per dispetto, pioveva minuti si e minuti no, pioveva la notte, il giorno, durante l’ora della pennica pomeridiana e soprattutto, ma soprattutto, pioveva in modo particolare quando uscivi di casa. Magari prima che uscivi, era quel minuto che pioveva pochissimo, ma poi, varcato il cancello, fuori dal condominio o dopo il giardino: goccioloni ricchi e bagnati.
Una mattina decisi di recarmi al Comune: l’Ufficio Stagionale delle Temperature, della Pioggia e delle Manifestazioni all’Aria Aperta chiudeva all’ora di pranzo e avrei avuto tutto il tempo per reclamare di buon gusto. Mi ricevette una signorina con il naso a punta e un cappello da baseball verde. Portava un paio di occhiali da sole sulla visiera, una maglia bianca da tennis particolarmente attillata e un seno enorme che sembrava guardare solo me; infine intorno al collo, una collana di grosse perle rosse: era del tutto fuori luogo. Salve, le dissi,”vorrei sapere perché non la smette di piovere!” Avevo un tono decisamente irritato e fregandomene della minaccia che quel petto esercitava sui miei settantuno anni, continuai: “Sono ore, macchedico, giorni! Sono giorni che non posso uscire di casa se non per farmi una doccia! L’erba è color albero di natale e l’asfalto una piscina per le Olimpiadi Invernali! Il mio riscaldamento non ne vuole di riscaldarmi neppure lo sgabuzzino e io, che ho il bastone, scivolo anche in casa da che è bagnato! Ho usato tutte le pentole di mia moglie per raccogliere le gocce: ho i muri bucati! Me li ha bucati l’acqua a forza di venire giù a rompere l’anima a tutti noi. Mia moglie è isterica, non può più cucinare, si arrabbia con me che le ho tolto la bigiotteria dei fornelli; ma che ci posso fare io se si fracica tutto? E non parliamo delle finestre: completamente cieche! O si appannano i vetri dal vapore perché rudimentalmente cerco di generare calore – e comunque mia moglie sbraita – o sono completamente rigati! Dica qualcosa a quest’acqua del Cielo Dannato, le dica che si comporti bene almeno con le cose degli uomini! Che cada a dirotto se vuole cadere, ma che almeno non si aggrappi alle nostre mura, ai nostri vetri, che non li guasti, che abbiamo solo quelli! E poi sa quanto costa un vetro nuovo? Al giorno d’oggi, lo sa quanto costa? Caro, costa, un vetro. E lei, signorina, li ha i soldi per comprare tutti i vetri rigati di casa mia? e tutti quelli rigati di casa del signor Rovaldi, della signora Marchetti, dell’idraulico Menni e del droghiere Saffi? Li hai? Io no! Per non parlare del freddo becco che fa! Fa un freddo becco! Ho sentito dire poi che l’Estate è passata, si è passata, e sa per dire cosa? Ho sentito dire che ha detto che ci saluta per quest’anno, che dice che non se la sente. Ma come avete fatto a farvela scappare così, sotto il naso, dico io. Come? Era solo ieri che i pettirossi se ne volavano per altri lidi e i cinguettii delle cicale già cominciavano a darmi sui nervi e… non ho neppure avuto modo di arrabbiarmi sul serio. Non si può! Non si può. Signorina, lei deve fare qualche cosa.”
Ecco, avevo deciso di prendermela con lei, che per tutto il tempo della mia invettiva, se ne era stata immobile con i suoi occhiali e il suo berretto a guardare, probabilmente, un punto fisso nel vuoto, oltre la mia faccia. Mi fece calmare, mi fece deglutire, poi iniziò: “caro signor Robelli, mi duole che lei abbia tutti questi problemi, ma vede, non è il solo. Ieri mattina e ieri l’altro e quello prima ancora, una serie di personaggi come lei: cittadini rispettabili che pagano le tasse, litigano con le loro mogli e si recano al gioco delle bocce ogni domenica pomeriggio, sono venuti qui a lamentarsi da me. Io non posso far altro che fare appello all’Ufficio Dirigenziale della Stagione in persona, che a sua volta conosce la causa del malcontento generale. La prego quindi di telefonare qui per prendere appuntamento e chiedere spiegazioni direttamente a lei.”
La signorina mi allungò un foglietto con alcune cifre ben scritte, seguite da un indirizzo mail. Ma io che di computer non me ne intendevo moltissimo, ero deciso a chiamare quel giorno stesso, potevo sperare di trovare ancora qualcuno. Il telefono squillò a vuoto per qualche minuto, poi una voce maschile rispose che era lì per me. “Salve, qui Dirigenziale Stagione, sono qui per lei”. Ne ero quasi commosso! Dissi che volevo un appuntamento subito, per parlare con chi di dovere, ripetei quindi i primi versi del mio malcontento: “vorrei sapere perché non la smette di piovere!” “Sono ore, macchedico, giorni! Sono giorni che non posso uscire di casa se non per farmi una doccia! L’erba è color albero di natale e l’asfalto una piscina per le Olimpiadi Invernali! Il mio riscaldamento…” Quello mi disse quindi di tornare il giorno dopo, fissandomi un incontro alle dodici, poi riattaccò.
Il giorno dopo alle dodici, bagnato come non mai, ero in piedi di fronte alla Dirigenziale Stagione. La Dirigenziale era una signora altissima e dalle spalle piccole, che dire minute è come dirlo di un manichino senza busto: inesistenti pendii verso il basso le scendevano dal collo fino alla punta delle dita, per articolarsi in braccia e poi mani dal palmo largo e bianco. Un palo della luce al posto del corpo, con capelli nerissimi in caduta libera verso terra, che le coprivano orecchie e parte del collo. Occhi azzurro ghiaccio sottili e vicini si staccavano di poco da un naso severo e imbronciato. Labbra sottili, rosso autunno e guance paonazze, come quando se fosse estate sverresti dal caldo, smascheravano senza pietà una sfilata di denti color avorio: enormi denti avorio utilizzabili in tutti i periodi dell’anno per qualsiasi tipo di cibo.
Quella mattina la Dirigenziale indossava un abito blu chiaro, tinta unita, un terracielo di quattro piani senza nessun tipo di sfumatura che le arrivava appena sotto le ginocchia: non svelava forma alcuna del corpo che rivestiva. Aveva un paio di scarponcini marroni fatti apposta per segarle le caviglie minute e, giro polpaccio, calzini sottili color carne, la sua carne: grigia.
Brutta? Se era brutta la Dirigenziale, io potevo non essere nato mai. Potevo poi non essere cresciuto mai, sposato mai, invecchiato mai e soprattutto, potevo non essermi lamentato mai, neppure in quel giorno. La bellezza di quella donna era una cosa che non si capiva. Era una di quelle cose assurde, improbabili, che se ti metti a raccontarle, e voi ne siete testimoni, non ci credi. Ma ve lo giuro, era bella. Oh se era bella. E io non aveva mai visto nulla di più bello. Neppure in televisione. O al cinema. O al computer. Neppure nei miei sogni. La Dirigenziale era lì e mi guardava, in tutta la sua assurda bellezza. Mi guardava come non mi ha mai guardato neppure mia moglie, neppure la prima volta che ci ho fatto l’amore, mai. Mai. E io, io non riuscivo ad aprire bocca. “Vorrei sapere perché non la smette di piovere!” mi sarebbe piaciuto dire. E continuare che erano ore, macchedicevo, giorni, che erano giorni che non potevo uscire di casa se non per farmi una doccia, che l’erba era color albero di natale e l’asfalto una piscina per le Olimpiadi Invernali e via dicendo, come sopra. Invece dalla mia bocca non uscì proprio nessuna parola.
Restammo buoni minuti a guardarci in silenzio: che forse anche lei aveva visto in me l’uomo più bello sulla faccia di quella terra piangente da giorni? L’uomo più assurdamente perfetto al mondo, che se lo avesse raccontato alla signorina dell’Ufficio Stagionale delle Temperature, lei non gli avrebbe creduto mai?
Non solo passarono ore, ma notti, passarono settimane. Credetemi se vi dico che passarono mesi. Io e la Dirigenziale restammo a fissarci per un anno intero, in rispettoso silenzio, e durante tutto quell’anno, fuori non smise di piovere mai. Io dimagrii e lei si assottigliò ancora di più. Ma la luce dei nostri occhi aveva creato una forza tale da farci restare in vita. Lo so che non mi credete, lo so che volete le prove. E sono qui, in queste mie poche righe, a dirvi che è tutto vero.
Al trecentosessantaseiesimo giorno, dopo che la terra aveva bevuto così tanta acqua da generare laghi spontanei in mezzo alle città e distruggere le case più prestigiose dei quartieri, mia moglie decise di venirmi a recuperare. Lei che non era mai uscita in vita sua con la pioggia, che aveva sempre mandato avanti me per paura di sciuparsi la messa in piega; lei, uscì.
Le bastò poco per capire dove trovarmi, alle donne basta sempre poco, e quando ci vide in quello stato, improvvisamente capì il da farsi. Subito fece declamare un’Assemblea Pubblica per dichiarare lo Stato di Calamità Naturale in cui riversava il paese da ormai lungo tempo: una pioggia annuale ininterrotta e ingiustificata. Poi ci prese di peso, prima a me e dopo alla Dirigenziale. Ci portò fuori, sotto la pioggia, ci rimise uno davanti all’altra e improvvisamente, grazie a quel nostro sguardo che ci aveva trattenuti per un anno, smise di piovere.
Qualche settimana dopo mia moglie chiese il divorzio e io lo accettai; in quanto alla Dirigenziale, non la vidi più e ora che son qui, a raccontarvi questa mia, l’unica cosa che davvero mi dispiace di tutta questa storia è che non le ho mai chiesto perché non ha smesso di piovere prima.