– prendo… prendo… quindi prendo…
– si, me’ dica.
– un… si, un… un caffè. … ….
– normale?
– uhm… si, un caffè. Un caffè normale, si.
E che ne sapeva lui. Che ne sapeva perché aspettavo. Forse lo volevo corretto il caffè. Pure che sono le undici. O schiumato anzi.
Con la crema di latte, si dice al nord. Io la chiamo schiuma, quella crema lì.
– anzi, con la schiuma. Grazie.
Avevo subito cambiato idea. Ma mica per dargli fastidio, mica per farlo lavorare di più.
Perché oggi ero nella mia città, ecco perché. E vaglielo a dire un po’ a quel barista lì che io non lo prendo più il caffè colla schiuma. Vaglielo a dire che solo nella mia città quando chiedi un goccio d’acqua dopo il caffè, ti riempiono il bicchiere senza farti pagare niente in più. Te la danno gratis l’acqua. E vaglielo a dire che nei bar dove ti servono il caffè con l’acqua gratis, ti vendono anche la porchetta che pure se te la vendono fredda, è zozza abbastanza da piacerti proprio perché è zozza così.
Oggi rigatoni alla gricia, dice la lavagnetta alle sue spalle. O misto sott’aceti della sora Lella, con braciola di maiale e patate al forno che si capisce che questo bar qui non la manda a dire mica. Dietro il bancone poi c’è una collezione di porcherie che solo nella mia città: bustine di zucchero mozzate, cornetti piccoli del mattino alla marmellata non venduti vicino a tramezzini farciti tonno e uva, poi fettucce di pancarrè e grumi d’arancia dopo una spremuta d’arancia. Poi la televisione accesa e il telegiornale. E se non è la televisione e il telegiornale è Lucio Battisti o Mina. O Renato Zero o Radio Italia.
E poi il barista con la scucchia. E la barba sfatta. O appena in ricrescita. Quelle barbe con tanti puntini neri ruvidi sulle guance e fin sotto il mento. Quella del giorno dopo, quando non te la puoi di nuovo radere ma la vedono tutti.
– Quant’è?
– Ottanta centesimi.
Perché nella mia città il caffè costa trenta centesimi in meno. Perché nella mia città quando hai sete l’acqua te la danno gratis e non avanzano neppure il bicchiere: un signor bicchiere, dico io, un cristo di signor bicchiere alto e tondo, panciuto che ci stanno tre dita di acqua fresca del rubinetto. Con gas o senza? non esiste il gas nei rubinetti della mia città. Esiste che hai sete e l’acqua è gratis.
Diglielo un po’ al barista mentre lo guardo che mi da’ da bere, diglielo che io qui, nella mia città, non ci vivo più.
Che il bar, questo bar qui, non ci ero neppure stato mai, ma che ora mi piace più del bar sotto casa mia di quando vivevo a casa mia, nella mia città.
Diglielo che io non ci torno più, che la mia città mi ha lasciato e io pure. Che mi ha fatto male, che mi sono sentito tradito. Diglielo che quando ci torno, che ci torno per lavoro e mica perché ci torno a vivere, mi fa sempre cascare cotto come una pera cotta. Diceva mia nonna.
Perché il sole che c’è, l’aria che c’è, la puzza che c’è, mica c’è in altre città. Che fa sempre caldo anche se è inverno, che ti mandano ai morti mentre guidi, anche se non hai fatto niente e poi ti sorridono perché non hai fatto niente.
Diglielo un po’, a quel barista lì, che oggi resterei a guardarlo per ore, per tutte le ore del suo turno, a guardarlo mentre fa i caffè, mentre non batte gli scontrini e poi li batte quando gli va, mentre manda ai morti qualcuno, mentre non pulisce il bancone e accumula mozziconi di bustine da zucchero, mentre urla al cognato che è pure il suo cuoco, che un suo cliente vuole la braciola di maiale e intanto serve un cornetto indurito dalla mattina all’ora di pranzo per un travestito dietro l’angolo, come tutte le mattine all’ora di pranzo, quando si fa mezzogiorno. Diglielo che io non ci vivo più nella mia città, che mi manca quando esco di casa e non trovo più il traffico, quando non sudo più in piedi nell’autobus schiacciato da corpi puzzolenti e quando non bestemmio perché non mi tagliano più la strada con il rosso che per me è già verde.
Diglielo che nei palazzi non ci sono più di quattro piani e che negli ascensori non ci sono più le grate in ferro battuto stile liberty, da dove entrano gli spifferi mentre sei al sesto, che non ci sono le sedute di legno sotto lo specchio, che mentre ti specchi fa freddo e respiri la puzza delle sigarette di qualcuno che fuma le sigarette negli ascensori con gli spifferi e le sedute di legno.
E diglielo che non canta nessuno per strada, che le strade sono deserte e che alle dieci di sera è già inverno anche quando è estate.
Diglielo un po’, a quel barista lì, che tornerei indietro, nella mia città, e che guadagnerei due soldi, due, pur di puzzare di fogna e caffè alla mattina, con il bicchiere di acqua gratis al bar e una fetta di porchetta nel panino, con una scia di mandati a morte dietro le luci dei semafori rossi ma con un sole, un cristo di sole che vale tutta l’aria sporca di tutte le altre città che non sono la mia dove invece ho vissuto fino ad ora.