Mi chiamo Cotton


Mi chiamo Cotton e vengo dalla specie degli Igienici. Ho miliardi di fratelli in tutto il mondo che si chiamano come me. Neppure io so quanti ne ho. Non ho un sesso, non ho un hobby, ma sono magro. Tendenzialmente longilineo, entrambe le estremità: morbide. Sono perfetto nel mio genere, come tutti i miei fratelli voglio ben sperare, e mi fido; nessun difetto di fabbrica. Ho solo un cruccio: mi annoio da morire e ho tempo da vendere. Questa che state ascoltando è la mia biografia, autobiografia. Nessuno si occupa di me ora, quindi sarò testimone di me stesso. Miriam ci ha comprato molti anni fa, non saprei quantificare. Tutti i miei fratelli sono stati usati, chi più chi meno, glorificando il nostro obiettivo, portando a termine lo scopo: pulire le orecchie della gente. O spingere in fondo il cerume, più giù sempre più, dipende dalle famiglie e dalle loro credenze. Cotton, uno dei miei fratelli e il più vicino a me nella confezione, è stato usato per primo. Quando Miriam l’ha buttato, oh, lui sì che era giallo! Giallo senape, una bellezza! Poi è toccato a Cotton, e a Cotton e a Cotton ancora. Quando la figlia di Miriam ha preso me, qualcosa deve essere andato storto: ho fatto una fine diversa da tutti gli altri e non mi dilungherò in dettagli. Però mi sono trovato in mezzo alla strada, solo. Fortunatamente sono insensibile. Non ho pelle, non ho percezione di qualcosa su di me – credo sia stato fatto apposta – e la mia esile stazza non percepisce calore: nessuna emozione cutanea, nessun raffreddore, non sudo, non puzzo, eccetera. Tutto questo per dirvi che il cambio delle stagioni non ha turbato la mia noiosissima vita. Ho visto per giorni e notti la gente camminarmi sopra, prendermi involontariamente a calci, innaffiarmi di birra, di vino, di gelato al cioccolato, di panna. Un altro Cotton? No mai, mai uno dei miei fratelli che fosse capitato qui per strada, al mio fianco. Finché non è arrivato Vattenevia.

Vattenevia era un piccione, presumo si chiamasse così perché sentivo la gente chiamarlo così. Enorme, uno stomaco come il nonno di Miriam, un piumaggio lercio che non ne avete un’idea. Non nutrivo particolari simpatie per questo essere, né belle né brutte per capirci. Ero del tutto indifferente. Ero annoiato, chi si annoia smette di avere affezioni. Poi noi Cotton non siamo stati mai dotati di particolari sensibilità, una fatica in meno. Un giorno Vattenevia però si avvicina a me; nonostante il tempo mi sentivo ancora molto longilineo come vi dicevo, e forte nella mia completezza: fiero di potermi chiamare ancora Cotton! Con il becco mi sbecca, mi sbatacchia, di piccoli millimetri in qua e in là. Vado a finire in una pozza. Vattenevia ci si immerge: prima una zampa, poi l’altra, poi sgrulla una, poi sgrulla l’altra, con fare frettoloso si guarda intorno, abbassa il collo rapidamente: su giù, su giù. Poi zac: mi inforca! Anni, dio mio, anni che nessuno mi afferrava più. Avevo subito capito che non c’erano orecchie nei paraggi, nessun cerume da pulire, tantomeno quello di Vattenevia. Sì, il suo intento primario era di mangiarmi. Contento lui! Sono rimasto per molto tempo nella sua pancia, a stretto contatto con un accendino, con alcuni tappi, con altri oggetti colorati e alcuni che si sono accumulati nei giorni, oggetti non bene identificati e mai digeriti: mai sentito così costipato prima, neppure nella nostra confezione!

Vattenevia morì di vecchiaia – credo – alcune settimane dopo, e scelse il mare, per farsi cullare dalle onde prima che fosse tutto finito. Beato lui! Ho pensato. Durante la mia permanenza nel suo stomaco conobbi qualche insetto, praticamente più morto che vivo, quindi inutilizzabile dal punto di vista sociale. Dalla sua decomposizione rimanemmo in cinque, i due famosi tappi, l’accendino, io e un bigodino. L’accendino fu quello che trovò subito compagnia, dei ragazzi lo allontanarono da noi sperando divenisse la mascotte del loro falò. Poi toccò a me, ma non certo per la clemenza di qualcuno che volesse prendermi a carico, no. Un’onda mi inghiottì una notte di alta, galleggiai per giorni, per mesi. Poi arrivò Cave Marin The Horse. Oh, lui sì che era un signore! Cave Marin aveva una trombetta al posto della bocca e una coda arrotolata che gli dava un’eleganza inconfondibile tra gli altri tipi che frequentavano l’acqua. Mi prese, rapido strinse la sua coda al mio corpo e trascorremmo moltissimo tempo insieme, i giorni migliori della mia noiosissima esistenza. Lui non lo sapeva, ma con me al suo fianco sembrava un re! Nessuno dei suoi familiari aveva un Cotton fra la coda, certo è che ognuno di loro però si era attrezzato per non essere da meno: buste come baldacchini, tappi di penne come autoritratti cubisti e profilattici come tuttofare: si riempivano, si svuotavano, si trasformavano: per come girava la corrente passavano dal sembrare piccole meduse all’ultima specie di alga da chissà quale gusto selvaggio mai provato. Cave Marin The Horse morì proprio così: tentando di aspirare un profilattico con la sua bocca a trombetta. Purtroppo assistetti alla scena, dalla longilineità del mio stelo e incapace di difendere il mio padrone. Oggi sono tornato sulla terraferma, ancora in attesa che qualcuno ponga fine alla noia mortale che contraddistingue le mie giornate. Se potessi vendere tutto il tempo che ho a disposizione, io come tanti altri compagni non dico della mia stessa specie, ma del mio genere, diventerei ricco, sarei un mecenate! Donerei il mio bel gruzzolo a qualcuno che intervenga sullo stato di longevità della plastica e sulla sua decomposizione di massa: meno vita a noi! L’eternità, nella sua noia immortale, può essere pericolosa.

Questo racconto è stato letto nell’ambito di Resilienze Festival 2018, Bologna
Foto di Justin Hofman “Sewage Surfer” – finalista del Wildlifer Photographer, 2017